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Perche’ le decisioni non si traducono in azioni

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Le persone, così come le organizzazioni, spesso conducono riflessioni o studi che portano a individuare dei cambiamenti da attuare: a volte solo utili, altre volte decisamente necessari.
Però accade spesso che il capire che un cambiamento va fatto, e il decidere di attuarlo non sono condizioni sufficienti per riuscire ad attuarlo.

Jeffrey Pfeffer , che per mestiere aiuta aziende e singoli a cambiare con tempisco e con successo, si dedica da molti anni a studiare questo fenomeno del gap tra la comprensione/decisione e l’azione, e ha raccolto molte storie utili.

Lo scopo e la ragion d’essere di ogni processo decisionale è l’implementazione: anche la migliore decisione, se non è eseguita, non è una decisione.
Alfred Adler disse “Fidati sono del movimento. La vita accade attraverso gli eventi non le parole. Fidati del movimento, perché anche se a volte è sbagliato, ti permette comunque di spingerti avanti ed imparare qualcosa“.
Molière disse “Non siamo responsabili solo di quello che facciamo: siamo anche responsabili di quello che non facciamo“.
Perché la decisione di non decidere, o la decisione di non fare sono comunque decisioni.

Pfeffer analizza le ragioni per cui le aziende non riescono a convertire la comprensione in azione.
Dopo aver analizzato molte realtà aziendali, ne ha individuate principalmente 4.

1. La paura
La paura è umana e nasce con l’intenzione di proteggerci: le persone hanno paura di perdere il loro lavoro, di dire la verità, dei conflitti, di offendere il proprio capo, ed è per questo che il primo principio di Deming era di eliminare la paura dalle organizzazioni. Come ?
Prima di tutto facendo in modo che i leader stessi ammettano che possono sbagliare.
Ad esempio, Gary Loveman, ex CEO di Harrah Entertainment, esigeva che la gente gli dicesse la verità e provasse  cose nuove, ed era il primo a parlare dei suoi errori. David Kelly, fondatore e CEO di IDEO, una volta annunciò un cambio organizzativo dicendo “l’unica cosa di cui siamo sicuri e’ che questa nuova struttura è temporanea ed è sbagliata, ma è la migliore cui possiamo pensare in questo momento“.
E poi permettendo alla gente di fare errori, se ben pensati: dando alla gente una seconda o terza chance.

2. Il dover essere “smart”
In molte organizzazioni l’idea di persona smart corrisponde a quella di un manager che in meeting prende la parola per fare alti ragionamenti e sottolineare quello che non va.  Abbiamo in molti questa idea che l’ottimismo sia virtù degli stupidi, mentre lo spirito critico riveli profondità di pensiero.
Nelle aziende dove la comprensione non si trasforma in azione è facile che il senso dell’andare in ufficio stia più nello stare seduti a ragionare / filosofeggiare / criticare piuttosto che nel fare/ sbagliare.

3. Misurare troppo. Misurare male
Molte organizzazioni hanno troppi dati.
Di fronte a troppe informazioni si va in analysis paralysis; di fronte a molte informazioni nascerà sempre la voglia di averne altre per essere “davvero sicuri”, e intanto la vita passa accanto.
Molte organizzazione misurano anche le cose sbagliate o inutili.
Ad esempio trackiamo i risultati finanziari piuttosto che i processi che producono quei risultati.
Pfeffer ci offre questo confronto illuminante: è un po’ come cercare di migliorare il proprio swing a golf dicendo dove la palla è arrivata o dove si è fermata: questo non migliorerà in alcun modo il tuo swing. Per migliorare il tuo swing devi misurare il processo, e gli snodi che possono produrre uno swing migliore.

4. Vivere nel passato
Il quarto problema alla base del gap tra comprensione e azione è il fatto che viviamo spesso nel passato, e la memoria, la storia si impongono sul pensiero e la riflessione aperta, dunque quello che vorremmo fare passa sempre al vaglio di ciò che è stato.
Chiedi ai tuoi colleghi di sedersi e fare insieme a te l'”esercizio delle vacche sacre”.
Passate tre o quattro ore facendo un brainstorming su tutte le cose del passato (convinzioni, esperienze,abitudini…) che ostacolano il vostro passare all’azione, priorizzate le più rilevanti, ed eliminatele.
Il passato porta insegnamenti, certo. Ma non deve impedirci di guardare avanti, sia che sia un passato glorioso, sia che sia un passato di insuccessi.
Spesso, se abbiamo tentato una cosa nel passato, e quella cosa non ha funzionato, semplicemente la accantoniamo, senza nemmeno approfondire con onestà cosa ha prodotto l’insuccesso e cosa avrebbe potuto essere fatto diversamente, generando forse un esito diverso. Preferiamo rimuovere, e via.
Oppure, se le cose sono sempre andate bene in un certo modo, resistiamo anche solo all’idea di fare in modo diverso, restiamo attaccati al buono che è stato, impedendoci di aprirci al meglio che potrebbe essere.

Pfeffer ci invita a guardarci allo specchio, sia a livello individuale sia a livello di team o di azienda, e con onestà intellettale riconoscere i blocchi e scegliere attivamente di rimuoverli, per poter mettere in moto la macchina, e inventare un futuro nuovo.

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